Di Amedeo Ricucci
Adoro gli anniversari. Perché sono un’occasione per riflettere e provare a capire. Penso diano un senso meno effimero al nostro lavoro di giornalisti, permettendoci di organizzare dati, eventi e ricordi con più libertà, senza i lacci che impone la cronaca dell’oggi e con l’unico intento di organizzare una prospettiva valida attraverso cui legare passato, presente e futuro. Se l’anniversario poi è il decennale della Guerra d’Iraq – quella di Bush jr, iniziata il 20 marzo del 2003– c’è solo da divertirsi: perché farne un bilancio, dieci anni dopo, serve non solo a mettere i puntini sulle i di un intervento militare fra i più controversi di sempre, ma anche a capire il destino del Medio Oriente, che resta l’area più critica del nostro pianeta: la Madre di tutte le Instabilità.
La prima, ovvia domanda a cui i mass media mainstream stanno provando a rispondere in questi giorni, con i loro inviati e fior di analisti, è se ne è valsa la pena, ra. Al netto, ovviamente, delle bugie vergognose sulle presunte armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein che precedettero e con cui si cercò di giustificare quella guerra. L’inglese The Indipendent si chiede ad esempio”Chi ha perso e chi ha vinto inIraq”? E soprattutto “se l’Iraq si trova oggi in condizioni migliori rispetto a ieri?” . Prova a rispondere con un reportage in sei puntate di Patrick Cockburn, e il quadro che ne emerge è negativo, sia sul piano della democrazia – quella che George W. Bush ha provato ad esportare con le armi – sia su quello della sicurezza, che a distanza di dieci anni resta l’incubo quotidiano per milioni di iracheni, che non si accontentano della democrazia “formale” ma vorrebbero quella “sostanziale”.