Di Alberto Tundo
Nella causa che opponeva dei bambini al colosso Usa dei pneumatici, una corte americana ha dato loro torto ma ha riconosciuto il fondamento dell’azione legale

Il caso era stato aperto nel novembre 2005 quando l’International Rights Advocates (IRAdvocates), una organizzazione no profit che offre assistenza legale a chi abbia visto i propri diritti “violati da parte di potenti corporation” – scrivono sul loro sito – in rappresentanza di un gruppo di adulti e bambini, aveva intentato una causa contro Bridgestone/Firestone, appellandosi all’Atca. Nel giugno 2007, il giudice aveva respinto la mozione di Firestone che chiedeva che non si procedesse, consentendo che la causa andasse avanti ma solo per quanto riguardava l’accusa di sfruttamento del lavoro minorile (l’altra accusa era di gravi violazioni dei diritti dei lavoratori). E così, non più protetti dall’ombrello di una class action, i 23 bambini liberiani si sono trovati in prima fila contro una multinazionale che nel loro Paese ha un potere enorme. Secondo Alfred Lahai Brownell, presidente dell’Association of Enviromental Lawyers of Liberia (Green Advocates), la Firestone Natural Rubber Co., una sussidiaria di Firestone, che a sua volta è posseduta dalla Japanese Bridgestone Corporation, in Liberia scrive direttamente le leggi sul lavoro, controlla il sindacato interno, ne seleziona i dirigenti e ne guida le politiche. E lo stesso potere ce l’ha sul governo, visto che “ha fatto investimenti per 26 miliardi di dollari, quando il Pil del Paese del 2009 era di 896 milioni di dollari”. In Liberia, la Firestone Natural Rubber Co. controlla la più grande piantagione del mondo di alberi della gomma, per un totale di quasi 49 mila ettari. Secondo la ricostruzione dell’accusa, i 23 bambini, tutti tra i sei e 16 anni, lavoravano proprio nella raccolta del lattice, con i loro guardiani, con giornate massacranti che iniziavano alle 4 del mattino e si concludevano nel tardo pomeriggio. Aiutavano i loro genitori a raccogliere le quantità di lattice prefissate.
Il giudice Posner ha spiegato che, in questo caso, non c’erano elementi sufficienti per affermare che Firestone avesse violato il diritto consuetudinario internazionale in tema di lavoro minorile. Né era possibile dimostrare quanti bambini fossero al lavoro in quella piantagione o quanto dure fossero le condizioni di lavoro. Inoltre, considerando che i padri dei bimbi lavoravano per lo stesso gruppo, con un salario superiore alla media liberiana, era proprio nell’interesse di questi ultimi che i loro genitori riuscissero a raggiungere le quote di produzione assegnate e non perdessero il posto o che non fossero costretti a ricorrere ad aiutanti adulti, rinunciando così ad una parte del salario. In questo, la sentenza è pilatesca, perché pur riconoscendo l’esistenza di un problema, l’ha di fatto ignorato in un caso specifico. La Firestone, da parte sua, ha più volte negato, in maniera decisa, di fare ricorso a manodopera minorile: “Abbiamo una politica di tolleranza zero nei confronti del lavoro minorile”, spiergò il presidente di Firestone Natural Rubber Co., Dan Adomitis, in un intervento pubblicato tre anni fa dal Los Angeles Times. Il problema, però, spiegano gli attivisti, sono i piccoli fornitori e quelle società che forniscono alla Firestone la gomma grezza. La questione resta drammatica: solo lunedì, l’Organizzazione internazionale del lavoro delle Nazioni Unite (Ilo) ha diffuso le cifre che fotografano l’emergenza nell’Africa occidentale: qui, un bambino su quattro, tra i cinque e i 17 anni, è impiegato in lavori pericolosi. In tutto il mondo, sono 200 milioni i bambini sfruttati come manodopera. L’Ats potrebbe diventare uno strumento importante per combattere questa piaga: in base alla stessa legge, una corte di Washington aveva accettato la causa intentata contro Exxon Mobil dagli abitanti di un villaggio indonesiano, che accusano guardie private impiegate dalla multinazionale nella difesa di un giacimento di gas di omicidi e torture.