Di Guido Ambrosino
La sua caduta fu una liberazione, e offrì dopo 28 anni la possibilità di ricominciare almeno a parlare di comunismo e socialismo in Germania, senza essere subito azzittiti col rimando agli obbrobri del «socialismo reale». Come capitò nel ’68 a Rudi Dutschke, nato a est, in rotta con la Rdt che abbandonò a 21 anni, nel 1961, tre giorni prima della chiusura della linea di demarcazione tra il settore sovietico di Berlino e i tre settori occidentali, americano, inglese e francese. A lui e agli altri studenti che sette anni dopo ripresero a sventolare bandiere rosse, i berlinesi dell’ovest replicavano: «Andatevene dall’altra parte del muro».
Né fece meglio la nuova sinistra che, affascinata dalle rivoluzioni «vittoriose», si era entusiasmata per i nazionalpopulismi terzomondisti (senza guardare per il sottile sul nodo decisivo delle libertà personali), purché fossero antiamericani. Aveva letto molto Lenin e Mao, e troppo poco si era curata delle rivoluzioni sconfitte, e degli orrori dello stalinismo. Pochi in Italia si erano appassionati a Rosa Luxemburg, che già nel 1918 scriveva parole definitiva contro la dittatura bolscevica («La libertà è sempre la libertà di chi la pensa diversamente), o al «comunismo dei consigli» di Anton Pannekoek, Herman Gorter, Otto Rühle, Karl Korsch, Paul Mattick: uno snodo cruciale per la critica da sinistra al leninismo-stalinismo.
Che non fu la caduta del muro, ma la sua costruzione, a certificare il fallimento del socialismo di stato su suolo tedesco, era chiaro già al gruppo dirigente sovietico dell’epoca, come risulta dai documenti ormai accessibili a Mosca e a Berlino. Nikita Krusciov era riuscito per otto anni a evitare l’umiliazione di una barriera antifughe, consapevole del danno d’immagine che ne sarebbe venuto al blocco «socialista». Cedette alle ripetute pressioni di Walter Ulbricht, primo segretario della Sed, il partito di unità socialista della Repubblica democratica tedesca, soltanto quando si convinse che non c’era altro modo per arrestare l’esodo. Tra il 1949, anno di fondazione della Rdt, al 13 agosto del 1961, passarono nella Repubblica federale tedesca 2,7 milioni di persone, più del 14 per cento su una popolazione di 18,4 milioni di abitanti nel 1950.
Restava però aperto il varco di Berlino, città sottoposta a un regime di occupazione quadripartito tra le potenze vincitrici. Dal settore sovietico si poteva passare nei settori occidentali con un biglietto della S-Bahn, la ferrovia urbana, per 20 centesimi di marco. E di lì proseguire in aereo (o in treno, una volta ottenuta la cittadinanza della Rft) lungo i corridoi di transito verso la Rft, tenuti aperti dagli alleati occidentali.
Un picco nella curva delle fughe si ebbe nel 1953, in seguito alla repressione della rivolta operaia a Berlino e in altre città contro l’inasprimento delle «norme di lavoro» (con l’effetto di ridurre i salari a cottimo): ben 331.390 persone voltarono quell’anno le spalle a Ulbricht.
I sovietici fecero a loro volta pressione su Ulbricht, affinché ammorbidisse il suo corso. Il dirigente tedesco, dopo la rivolta operaia repressa nel sangue dai carri armati sovietici, aumentò la quota di produzione destinata ai consumi: più pane e più burro. Ma inasprì il controllo autoritario. Delle «riforme» caldeggiate dal Cremlino non voleva saperne: «Noi siamo in prima linea. Non possiamo permetterci esperimenti del genere».
Sarebbe sbagliato pensare alla Rdt come a un docile «satellite» di Mosca. Ulbricht difendeva le sue idee anche a muso duro. Era orgoglioso di aver conosciuto personalmente Lenin, a differenza di Krusciov. Convinto di essere un fedele seguace di Lenin e Stalin, pensava che Krusciov stesse scantonando dall’ortodossia e che avesse spinto troppo oltre la sua critica a Stalin. Lo conconsiderava dall’alto in basso un contadino ingenuo, troppo arrendevole nei confronti dell’ovest.
Il braccio di ferro sulla sorte di Berlino si inasprì nel 1960. A ovest scoppiava il boom economico. Il dislivello negli standard di consumo tra le due Germanie diventava evidente. L’esodo dalla Rdt, sceso a un minimo di 143.917 espatri nel 1959, risalì a 199.188. Anche i giovani cresciuti nel «socialismo» se ne andavano, ingegneri e medici formati nella Rdt.
Krusciov credeva che il campo socialista avrebbe potuto «sorpassare» l’occidente. Nell’aprile del ’61 Gagarin fu il primo uomo «sparato» nello spazio. Ma il tenore di vita stagnava.
Ulbricht, più pessimista, recriminava per la dura politica di riparazioni a cui la Rdt era stata sottoposta da Mosca fino al 1955. Nel gennaio del 1961, tornando a sollecitare la chiusura del confine a Berlino, scriveva a Krusciov: «Mentre noi versavamo riparazioni, con trasferimenti di impianti industriali e prelievi di quote di produzione, la Germania occidentale era esente dall’onere di riparazioni e riceveva inoltre dagli Usa crediti rilevanti e aiuti per diversi miliardi (…). Questo è il motivo principale, per cui siamo rimasti così indietro rispetto alla Germania occidentale nella produttività del lavoro e nei livelli di consumo».
A cose fatte Nikita Krusciov disse all’ambasciatore di Bonn a Mosca: «Il muro è stato ordinato da me, in seguito alla pressante richiesta di Ulbricht». Nelle sue memorie scaricò ancora più esplicitamente la responsabilità sul leader tedesco: «Se la Repubblica democratica tedesca fosse riuscita a valorizzare il potenziale morale e materiale (dei suoi cittadini), il transito sarebbe rimasto aperto in entrambe le direzioni». Non andò così. Senza il muro-gabbia la Rdt si sarebbe svuotata. La muraglia consentì solo di imbalsamare per quasi tre decenni un fallimento conclamato.